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Deborah a Bologna Atto 2


di Membro VIP di Annunci69.it Efabilandia
16.05.2025    |    1.474    |    8 5.8
"Ma sotto quella maschera, Stefano era ancora lì, un’ombra che tremava..."
Bologna, 2003. L’aria di settembre era densa, un misto di calore residuo e odore di asfalto bagnato dalle prime piogge. Deborah, 22 anni, si guardava allo specchio del piccolo appartamento in via dell’Industria, una zona grigia tra il centro e la periferia, dove le luci al neon dei bar si mescolavano al clangore delle officine. Indossava una parrucca nera, lunga e lucida, un trucco pesante che le scuriva gli occhi e un rossetto rosso che le dava un’aria da femme fatale. Ma sotto quella maschera, Stefano era ancora lì, un’ombra che tremava. Era arrivata a Bologna un mese prima, seguendo Marco, un amico di suo cugino Matteo, un uomo di 35 anni con occhi taglienti e un sorriso che prometteva guai. Marco l’aveva scopata un paio di volte a Milano, dopo che Matteo gliel’aveva presentata, e le aveva offerto una vita nuova: “Vieni con me, Deborah. Sarai mia, completamente.” Lei, affamata di appartenenza, aveva detto sì.
Non aveva capito subito cosa significasse “completamente”. Marco era un dominatore, non solo nel sesso, ma in ogni aspetto della vita. Le aveva detto chiaro e tondo: “Qui sei mia, annulli te stessa. Fai quello che dico, quando lo dico.” Deborah, che a 16 anni aveva imparato a essere la “troia” di Matteo e Franco, pensava di essere pronta. Ma Bologna non era la periferia di Milano, e Marco non era Matteo. Lui non si accontentava di possederla: voleva distruggerla, ricostruirla come un oggetto, una bambola di carne per i suoi desideri. E lei, inspiegabilmente, si sentiva legata a lui, come se ogni umiliazione fosse una catena che la teneva viva.
Il primo mese fu un inferno. L’appartamento di Marco era un buco di due stanze, con un materasso macchiato in camera e un divano sfondato in salotto. Le tende erano sempre tirate, e l’odore di sigarette e sudore impregnava ogni superficie. Marco non lavorava, o almeno non in modo regolare. Passava le giornate a bere birra, giocare a carte con amici o fissare Deborah con occhi che la spogliavano di ogni dignità. “Togliti i vestiti, troia,” era il suo saluto mattutino. Deborah obbediva, lasciandosi cadere in un mondo dove il suo corpo non le apparteneva più.
Le umiliazioni iniziarono subito. La prima settimana, Marco le ordinò di non usare il bagno per fare pipì. “Se devi pisciare, lo fai in una ciotola. E me la fai vedere.” Deborah, inginocchiata sul pavimento freddo, tremava mentre si svuotava in una vecchia scodella da cucina, il suono che echeggiava nella stanza silenziosa. Marco rideva, accendendo una sigaretta. “Brava, cagna. Ora pulisci.” Ma non era abbastanza. Presto, decise che nemmeno la ciotola serviva. “Apri la bocca,” le disse una mattina, slacciandosi i jeans. Deborah, confusa, lo fissò. “Non farmelo ripetere, puttana.” Il getto caldo le colpì la lingua, il sapore acre che le chiudeva la gola. Tossì, vomitò sul pavimento, e Marco le diede uno schiaffo così forte che le fece girare la testa. “Impara a ingoiare, o ti faccio pisciare dai miei amici.” Da quel giorno, la bocca di Deborah divenne il suo “urinatoio”. A volte due, tre volte al giorno, Marco la costringeva a inginocchiarsi, a bere, a pulirlo con la lingua dopo. “Sei mia, no? Questo è quello che fanno le troie come te,” le diceva, accarezzandole la testa come si fa con un cane.
Le percosse arrivavano senza motivo. Una sera, mentre Deborah lavava i piatti, Marco le si avvicinò da dietro e le tirò uno schiaffo sulla nuca. “Sei lenta, cazzo.” Lei lasciò cadere un bicchiere, che si frantumò sul pavimento. Marco la afferrò per i capelli, trascinandola in camera. “Pulisci dopo, ora mi servi.” La scopò sul materasso, senza lubrificante, il dolore che le squarciava il culo mentre lui le sbatteva la testa contro il muro. “Ti piace, eh, zoccola?” grugniva, venendole dentro con un ruggito. Deborah, tremante, annuì, perché una parte di lei lo desiderava davvero. Ogni colpo, ogni insulto, la faceva sentire viva, come se il dolore fosse l’unico modo per provare qualcosa.
Le giornate si susseguivano in una routine di sottomissione. Marco la usava quando voleva: la mattina la scopava in bocca, il pomeriggio la costringeva a strisciare nuda per casa, la sera la penetrava mentre guardava la TV, ignorando i suoi gemiti. A volte la legava al letto, le mani strette con una cintura, e la lasciava lì per ore, tornando solo per pisciare o per schiaffeggiarla. “Sei niente senza di me,” le ripeteva, e Deborah, con le lacrime agli occhi, gli credeva. Eppure, in quel nulla, trovava una strana forza. Essere Deborah significava essere desiderata, anche se a costo della sua umanità.
Dopo un mese, Marco cambiò le regole del gioco. Una sera, tornando a casa con una busta di plastica piena di bottiglie di vino, la guardò con un ghigno. “Devi iniziare a guadagnare, troia. Io non ti mantengo gratis.” Deborah, seduta sul divano con un perizoma e una parrucca bionda, sentì un nodo allo stomaco. “Cosa vuoi dire?” mormorò. Marco tirò fuori il suo cellulare, un Nokia vecchio modello, e le mostrò delle foto: lei in lingerie, lei a quattro zampe, lei con il trucco sbavato e lo sperma sul viso. “Queste finiscono online stasera. Domani inizi a lavorare.” Deborah lo fissò, il cuore che le martellava nel petto. “Lavorare… come?” Marco rise, accendendosi una sigaretta. “Come la puttana che sei. In appartamento di giorno, in strada di notte. Mi servono soldi, e tu me li porti.”
Non ci fu discussione. Marco la portò in un negozio di elettronica, comprò una digitale economica e le fece scattare altre foto: Deborah in un miniabito di latex, Deborah con tacchi a spillo, Deborah con un collare da cane. Le caricò su due siti di annunci, con un numero di telefono che rispondeva lui. “Da domani, si scopa,” le disse, dandole uno schiaffo sul culo. Deborah non dormì quella notte, il terrore e l’eccitazione che si mescolavano in un cocktail tossico. Sapeva cosa significava prostituirsi, ma non era pronta a perdere il controllo del suo corpo in quel modo.
Il primo giorno fu un incubo. Alle 11 del mattino, il primo cliente bussò alla porta. Un uomo sulla quarantina, calvo, con una camicia sudata e un odore di colonia scadente. Marco lo fece entrare, prese i soldi – 50 euro – e indicò Deborah, sdraiata sul letto in lingerie rossa. “Fai quello che vuole, troia,” le disse, uscendo. L’uomo non parlò. Si slacciò i pantaloni, le strappò il perizoma e la penetrò senza preliminari, il suo peso che le schiacciava il petto. Durò cinque minuti, poi se ne andò, lasciandola tremante e dolorante. Marco tornò, le controllò il culo con le dita. “Brava, sei ancora stretta.” Poi le ordinò di inginocchiarsi e le pisciò in bocca, il getto caldo che le colava sul mento. “Pulisciti, ne arriva un altro tra mezz’ora.”
La giornata continuò così: sei clienti in appartamento, ognuno più frettoloso e brutale del precedente. Un uomo le chiese di succhiarglielo mentre guardava porno sul telefono, un altro la schiaffeggiò mentre la scopava, un terzo le venne sul viso e rise. Deborah si sentiva come un oggetto, un buco da riempire, ma Marco non le dava tregua. Dopo ogni cliente, la usava lui: a volte la scopava, a volte le pisciava in bocca, a volte le ordinava di leccargli i piedi. “Sei mia, non loro,” le diceva, come se fosse una dichiarazione d’amore.
La sera, alle 21, la portò in zona Fiera, una strada buia dove altre ragazze camminavano sotto i lampioni. “Mai meno di 150,” le disse, spingendola fuori dalla macchina. “Se torni con meno, ti spacco la faccia.” Deborah, con un miniabito nero e tacchi altissimi, si sentiva nuda sotto gli sguardi dei passanti. Il primo cliente, un uomo in giacca e cravatta, le offrì 200 per un rapporto anale in macchina. Lei accettò, il dolore che le squarciava il culo mentre lui la sbatteva contro il sedile. Quando tornò da Marco, gli diede i soldi. Lui li contò, annuì, poi la fece inginocchiare sull’asfalto e le pisciò in bocca, ridendo. “Brava, zoccola. Continua così.”
Le settimane si susseguirono in un vortice di clienti e umiliazioni. In appartamento, Deborah vedeva di tutto: uomini sposati, ragazzi nervosi, vecchi con il fiato corto. In strada, i clienti erano più rozzi, più violenti. Uno la scopò contro un muro, un altro la costrinse a succhiarglielo in un vicolo puzzolente. Marco non si curava di chi fossero, purché pagassero. Una sera, un cliente ubriaco le tirò un pugno quando lei si rifiutò di farlo senza preservativo. Marco, invece di difenderla, le diede uno schiaffo quando tornò a casa. “Se dici di no, non mangi.”
Eppure, in quel caos, Deborah trovava momenti di lucidità. Mentre un cliente la scopava, pensava a chi fosse davvero: Stefano, Deborah, o nessuno dei due. Il dolore e l’umiliazione la tenevano ancorata a Marco, ma una parte di lei sognava di scappare. Non lo fece mai. Ogni volta che ci pensava, Marco la guardava con quei suoi occhi taglienti, e lei si inginocchiava, pronta a bere, a succhiare, a essere sua.
Una notte, dopo una serata in strada, Marco era ubriaco. Tornarono a casa alle due, con Deborah che zoppicava sui tacchi, il corpo dolorante. Marco tirò fuori una bottiglia di vino dal frigo, già mezza vuota. “Spogliati, troia,” le ordinò. Deborah obbedì, restando in perizoma e calze a rete. Marco le indicò il letto. “A pecorina. Voglio divertirmi.” Prese la bottiglia e gliela appoggiò contro il culo, la punta fredda che le faceva venire i brividi. “Mettila dentro,” le disse. Deborah, terrorizzata, provò a spingere, ma il vetro era troppo largo, troppo duro. “Non ci riesco,” mormorò, la voce rotta. Marco rise, un suono cattivo. “Non ci riesci? Sei una puttana da quattro soldi e non sai fare nemmeno questo?” Le afferrò i capelli, tirandola indietro, e le infilò la bottiglia con forza. Deborah gridò, il dolore che le squarciava il corpo. “Spingi, cazzo!” urlò Marco, ma la bottiglia non entrava. Furioso, la buttò sul pavimento, facendola inginocchiare. “Sei inutile,” ringhiò, e le tirò un calcio tra le gambe, colpendole i testicoli con la punta dello stivale. Il dolore fu accecante, un’esplosione che le tolse il fiato. Deborah crollò, singhiozzando, mentre Marco le pisciava addosso, il liquido caldo che le colava sulla schiena. “Domani fai meglio, o ti rompo,” le disse, spegnendo la luce.
Deborah si svegliò il mattino dopo con il corpo coperto di lividi, la mente annebbiata. Marco dormiva sul divano, una bottiglia vuota accanto a lui. Lei si guardò allo specchio, il trucco sbavato, gli occhi vuoti. Era ancora Deborah, la venere, la troia, ma qualcosa dentro di lei si era incrinato. Non sapeva se fosse odio, paura, o un desiderio di libertà. Eppure, quando Marco si svegliò e le ordinò di inginocchiarsi, lei obbedì, aprendo la bocca. Era sua, per ora. Ma una piccola parte di lei, nascosta sotto il dolore, sussurrava: “Non per sempre.”

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